Per addizione e per sottrazione
Fino a qualche anno fa la pittura di Andrea Marchesini era caratterizzata da un trionfo di materia rutilante. Con lavori in cui lo strato di colore, elargito con una generosità irruente, complessa, emotivamente dinamica, costituiva la parte più specificamente espressiva del linguaggio. Da questi dipinti era totalmente escluso ogni riferimento oggettivo e naturalistico e l’astrazione dominava indisturbata grazie agli accumuli intensi e perennemente in movimento.
Poi questa eloquenza cromatica ha subito una riflessiva battuta d’arresto, decantando e sedimentando tutto il pensiero e l’emozione che l’avevano generata. Senza tuttavia nulla rinnegare del passato, ché, anzi, queste forze per certi versi primordiali e magmatiche rappresentano la fase germinale anche del successivo e attuale percorso, la sua elaborazione.
La rarefazione della pasta cromatica, sottratta alla tela, ha ubbidito ad un desiderio dell’artista di riappropriarsi della forma. Il colore si è dato un ruolo di co-protagonista e, trattato con tecniche sperimentali, ha assunto la funzione – pur importantissima – di fungere da “sfondo” e da “contenitore” ad alcuni elementi che si andavano via via definendo in termini fondamentalmente surrealisti, talora anche “citando” alcuni stilemi cari a uno degli autori di riferimento di Marchesini, Joan Mirò.
Ed è proprio su questa matrice surrealista che il percorso di Andrea Marchesini è andato maturando altre tensioni, per certi versi più sottili e introiettive; con l’inserimento, senza competizione gerarchica, di tracce antropomorfe, fitomorfe e oggettuali. Con particolare riferimento a simboli di civiltà interconnessi dal denominatore comune di essere elaborazione umana dello spirito e del pensiero. Perfino la scrittura viene utilizzata come segno estetico, al di là del suo valore comunicativo e come portatrice di processi di astrazione, di formalizzazione, di costruzione logica, di analisi, di sintesi e quindi capace di rendere possibile la formulazione di nuove ipotesi e nuove teorie, oltre che la classificazione del mondo materiale e immateriale. Insomma Marchesini ne utilizza i grafemi come elementi disegnativi e artistici, liberando la scrittura dal suo consacrato e antichissimo incarico che, secondo Jack Goody, ha permesso un "addomesticamento del pensiero".
In qualche misura nipote della Transavanguardia, corrente così definita da Achille Bonito Oliva nel 1979, sorta in Italia alla fine degli anni '70 dopo le esperienze dell'Arte povera e della Minimal art, il fare artistico di quegli anni recupera, al pari di quello di Marchesini, la pittura e il disegno figurativi, nell'intento di ritrovare un linguaggio capace di maggiore apertura e libertà espressiva e anche di restituire importanza, nella costruzione di un quadro, all'intensità tecnica.
Ma nelle grandi e grandissime tele che dispiegano le loro “storie” vi è naturalmente anche qualcosa di strettamente legato alla contemporaneità. Nel recupero non solo tecnico ma culturale e cultuale. E non già per quanto attiene allo stile, quanto soprattutto per i temi e le idee praticati da alcuni artisti di riferimento di quei citati anni Ottanta che, oltre agli italiani - S. Chia, F. Clemente, E. Cucchi, N. de Maria e M. Paladino - rivoluzionarono dalle fondamenta anche negli Stati Uniti il linguaggio pittorico.
Proprio alcuni statunitensi costituiscono infatti l’altro prezioso riferimento per Marchesini. Protagonisti di una breve ma intensa stagione che mette radici nell’East Village di New York: Jean-Michel Basquiat, in particolare, che con il graffitista Keith Haring e il citazionista Mike Bidlo, si installarono in quel quartiere all’inizio degli anni Ottanta. Tuttavia la suggestione non è per Marchesini solo nei confronti di un atteggiamento anarchico e libertario dell’espressione, ma per una indagine più profonda sui simboli – tra cui ad esempio la corona che Basquiat usa come sigla stilizzata, assieme ad altre, quando dipingerà su tela – e nei quali l’artista ritrova i significati di una cultura e di una generazione. I simboli, in ogni caso, hanno anche una valenza assoluta, che non appartiene al tempo: come ad esempio la figura della “porta”, spesso presente nei dipinti di Andrea Marchesini, pregna di una ricca e ampia gamma di significati: letterari, psicoanalitici, liturgici; comuni alle tradizioni spirituali d’Oriente come dell’Occidente.
Del resto questo “ritorno alla pittura” ebbe anche in America un clamoroso successo, un’affermazione che viene decretata e sancita in modo molto pragmatico anche dalle gallerie d’arte di N.Y. e dal mercato internazionale che torna a guardare con rinnovato interesse alla figurazione e nel quale si affermano, tardivamente, ormai quasi sull’orlo della loro fine fisica per droga o per AIDS, quegli stessi protagonisti.
Ma l’elemento forse più interessante di questo riavvicinamento alla pittura propriamente detta e a una maggior precisazione della forma, è che esso si pone come libero territorio, eclettico e senza tempo; luogo di condensazione di culture attuali e antichissime, connubio di Oriente e Occidente, di Nord e di Sud, in cui la paternità delle leggende, della cosmogenesi e dell’antropogenesi è talmente remota da poter essere fatta risalire ad un’unica fonte, ad un unico territorio, pangea primordiale in cui scorrono, in un reticolo di percorsi, i fiumi che sfociano nell’unica panthalassa.
Nella pittura recente di Marchesini, infatti, le immagini di diversa epoca e provenienza rappresentano l’arbitrarietà della sequenza storica: ogni strato del passato è una finestra attraverso cui se ne vedono altri, presenti e mitici. Anche l’uso di tecniche pittoriche diverse racchiude una fascinazione di tipo artigianale: quasi sempre ottenute partendo da pigmenti che vengono poi mischiati dall’artista stesso in medium non tradizionali, le tinte generano interessanti conflitti e permettono di realizzare campiture marezzate ed effetti psichedelici.
Naturalmente, in questa nuova fase di ricerca formale, anche l’attinenza ai più importanti contenuti culturali, storicamente e geograficamente lontani tra loro, sono un elemento caratterizzante. Marchesini riesce a far convivere e dialogare nei suoi dipinti – enormi arazzi mobili o tele fissate in telai – l’umano e il divino, il misticismo strutturato delle religioni e la forza primordiale dei riti.
Una presenza costante, latente o rivelata, che emerge o discretamente si apparta nell’universo figurale di Marchesini è poi sempre, l’Io pensante/vivente. Come siluette o come testa senza volto, l’artista partecipa alla liturgia del quadro, quasi a rendere ancora più evidente e manifesto il proprio desiderio di assoluto, di contemplazione oltre il pensiero logico e la realtà strutturata.
Egli costruisce e poi si insedia in questa sorta di Neverland costellato di indizi. Così come “tutto è indizio prima di essere fenomeno nel cosmo dei limiti: più è lieve l’indizio, più acquista senso, poiché indica un’origine. Assunti in quanto origini, tutti gli indizi sembrano dare principio continuamente, instancabilmente al racconto” (Gaston Bachelard, La poétique de l’espace, 1957), altrettanto nella pittura odierna di Marchesini si intravvede – mai completamente esplicitata, ma presente in filigrana – la traccia della narrazione, il filo, non rosso ma atemporale, sul quale si appendono in modo rapsodico alcuni fondamentali dell’esistenza umana.
Perché non “fil rouge”? "Filo rosso" è un'espressione che si usa nel significato di "filo conduttore" e la sua origine è marinara: per districare le gomene di una nave si seguiva un filo rosso che rendeva possibile separare l'una dall'altra le corde aggrovigliate. Al contrario Marchesini propone, a se stesso prima di tutto, la visione di una “Coscienza sognatrice” totale, la cui apertura e amplificazione impedisce tanto l’alienazione quanto il solipsismo. In essa gli eventi che vengono inanellati dalla Storia sono esclusi per lasciare spazio ad un continuo flusso che non ha confini temporali e ambientali precisi: si muove come un potente succedersi di inspirazione ed espirazione, in un ritmo cosmico che viene traslitterato nel colore. Il Colore funge da liquido amniotico in cui si muovono forme rappresentative dell’Io e del Mondo, nel tentativo mai concluso di definire la propria consapevolezza morale ed estetica. Questa ricerca viene forse suggerita da indicazioni simili a quelle che fornisce un famoso testo taoista, il Lieh Tzu che era incluso nel catalogo della libreria imperiale come Trattato del Vuoto Perfetto, tra il V e il IV secolo a. C.: “Chi compie viaggi esteriori cerca la completezza nelle cose, chi si dà alla contemplazione interiore trova la sufficienza in se stesso” (Lieh Tzu, IV, 51.).
Ma il pittore è, anche, profondamente uomo del suo tempo e i suoi assunti poetici – oltre a tendere alla mistica e all’interiorità - hanno molto a che fare con le inquietudini che attraversano la modernità. Trovano forte adesione alle istanze della creatività nomade dei linguaggi, sentono propria – come scrive Bonito Oliva - la “possibilità di transitare liberamente dentro tutti i territori senza alcuna preclusione, con rimandi aperti a tutte le direzioni. [gli artisti] operano nel campo mobile della transavanguardia, inteso come attraversamento della nozione sperimentale dell’avanguardia, secondo l’idea che ogni opera presuppone una “manualità” sperimentale, la sorpresa dell’artista verso un’opera che si costruisce non più secondo la certezza anticipata di un progetto e di un’ideologia, bensì si forma sotto i suoi occhi e sotto la pulsione di una mano che affonda nella materia dell’arte, in un immaginario fatto di un incarnamento tra idea e sensibilità…”. (La Trans-avanguardia italiana, Flash Art 92-93, ottobre-novembre 1979).
E’ un “transito” salvifico e vitale, quello che Andrea Marchesini recupera dal passato recente, e testimonia che la ricerca, oltre a non avere mai una fine né dei limiti, sa guardare indietro e interiorizzare quello Spirito del Tempo che attraversa la storia.